Gagliardetti della Memoria: Andrea e Cesare Brigo

Abbiamo parlato sempre di casi di soldati presi singolarmente, ma questa volta vogliamo ricordare invece due fratelli deceduti durante la Prima Guerra Mondiale: Andrea e Cesare Brigo. Prima però di procedere con le loro storie vogliamo lasciare spazio al messaggio lasciato dalla nipote Annalisa, a nome della famiglia.

Il 25 aprile 2015 è stato un giorno speciale perché siamo stati invitati dal Presidente dell’Associazione Riviera al Front, Ivan Zabeo, e dall’Assessore alla Cultura Antonio Pra, che ringraziamo sentitamente, a ritirare i riconoscimenti per i nostri famigliari che hanno combattuto al fronte nella Prima Guerra Mondiale. Nella solenne atmosfera della sala Consigliare del Comune di Dolo, alla presenza di innumerevoli autorità, con grande commozione abbiamo ricevuto i Gagliardetti per le relative campagne di guerra: per Andrea e Cesare Brigo, fratelli del nonno paterno, periti in seguito alle gravi ferite subite, e per Umberto Martellato, nonno materno, sopravissuto ed insignito di Medaglia d’Oro e Cavaliere di Vittorio Veneto per un significativo atto di eroismo. Mi pervade un grande senso di riconoscenza, per il grande sacrificio di questi ragazzi, per una guerra che forse si poteva evitare, come si dovrebbero evitare tutte le guerre! Non dobbiamo dimenticare che ci hanno lasciato in eredità un’Italia libera e democratica, che dobbiamo custodire gelosamente, affinché il loro grande sacrificio non sia stato vano.

Annalisa Brigo

Andrea Antonio e Cesare Brigo nacquero a Sambruson, figli di Luigi, contadino, e della moglie Santa Giovanna. Andrea era nato nel 1890, mentre Cesare era di sette anni più giovane.

Andrea, matricola 17702, a fu mobilitato il 1 giugno 1915 e a distanza di pochi giorni, a 25 anni, fu assegnato all’87° Fanteria, Brigata Friuli, che fu prima mandata a Bassano del Grappa e poi avvicinata al fronte isontino, a Palmanova. Il 20 agosto, per la prima volta, lui e gli altri soldati dell’unità si appostarono nelle trincee della zona di Monfalcone. Il battesimo del fuoco per i fanti del Reggimento arrivò il 12 ottobre, quando il primo battaglione partecipò ai combattimenti su quota 93.
Poco prima della terza battaglia dell’Isonzo Andrea fu inviato nel 31° Fanteria, Brigata Siena, operante a Castelnuovo. L’obiettivo della battaglia era la conquista della cosiddetta ‘trincea delle frasche’, così chiamata per via dei rami che la nascondevano alla vista dei ricognitori aerei italiani. Gli assalti cominciarono il 21 ottobre e durarono tre giorni. Solo il 23 gli italiani s’impossessarono della prima linea nemica ma si trattava di un successo effimero poiché la notte seguente furono ricacciati dai vecchi difensori. In occasione della battaglia il comandante della Brigata fu destituito temporaneamente dall’incarico: il 22 ottobre si realizzarono tre balzi in avanti, a cominciare da quello delle 10 della mattina fino a quello delle 14 pomeridiane. Visti i risultati insoddisfacenti, il comandante, Maggiore Generale Federico Pastore, decise di infrangere un ordine che avrebbe portato al quarto assalto. Dopo nuovi colpi di mano continui, con protagonista il 32° reggimento, l’intera Brigata fu portata a Palmanova per riorganizzarsi, passandovi le feste di Natale.

In previsione di una possibile offensiva austroungarica in Trentino, a marzo la Siena fu dislocata tra Grigno e Strigno, nella zona di Trento, mentre due battaglioni erano stati schierati lungo il torrente Maso e la Val Maggio. Dopo un attacco che coinvolse il 32° sul monte Carbonile e su Spigolo Frattasecca, nella zona di Panarotta, tra il 14 e il 16 aprile il comando di divisione decise di spostare la Brigata sulla linea tra Cima Manderiolo e Sant’Osvaldo. Dopo tre giorni di serrati combattimenti corpo a corpo, tra il 6 e il 9 aprile, la mattina del 16 aprile i tirolesi avviarono le prove per la Strafexpedition del mese dopo con un attacco su Sant’Osvaldo, travolgendo il secondo battaglione del 31° e costringendolo a ripiegare a Volto e poi sul torrente Larganza, in località Roncegno Terme. Secondo lo storico ed ex soldato dell’esercito austroungarico Heinz Von Lichem, le spallate austriache di aprile sull’Armentera risultarono determinanti per lo sfondamento di maggio perché fu aperta una breccia: in questo settore gli avversari sprigionarono la loro forza lungo tutta la linea del Trentino, seguendo il Brenta e l’Adige. Nella serata del 15 maggio gli austroungarici riuscirono a sfondare a Villa Ceschi, con la Siena costretta all’arretramento, svolto fino al 22 maggio, inizialmente occupando la linea Villa Hippoliti e Moschene (il 16), poi Cima Dodici (il 18) e, infine, stabilendosi a difesa di monte Civaron e a Ospedaletto.

Durante la ritirata Andrea fu ferito in modo grave: l’8 giugno partì dal fronte a causa di una anchilosi parziale del gomito destro provocata da un’arma da fuoco. Portato a Roma, restò in cura fino al 2 febbraio 1917. La convalescenza durò un anno e l’8 giugno tornava a fianco dei suoi compagni, con la Siena posizionata a Jamiano. Dopo un periodo di riposo durante l’ultima decade di luglio, tra il 1 e il 16 agosto occupava la linea di Komarje.
Non guarì del tutto dalla ferita occorsa a Ospedaletto nel giugno 1916. Il 1° settembre fu mandato in licenza straordinaria per curarsi dai postumi della ferita subita al braccio destro e della tubercolosi polmonare. La sofferenza del fante durò altri due mesi. Alle ore 16 del 19 novembre morì nella sua casa di via Alture 175 a 27 anni.

Mentre Andrea consumava gli ultimi giorni al fronte sul Carso, il fratello Cesare cominciava la sua guerra. Arruolato il 16 agosto e iscritto alla prima categoria con la matricola 21989, due giorni dopo veniva assegnato al deposito del 55° Fanteria, nella Marche, con sede a Treviso. Dopo la ritirata dall’Isonzo le forze armate italiane dovevano essere riorganizzate e Cesare fu assegnato per quattro giorni al 265° Fanteria, nella Lecce, appostatasi sulle Grave di Papadopoli, giusto in tempo per contribuire a bloccare l’avanzata del nemico che, grazie a un ponte di barche, stava superando il Piave. Il 20 novembre fu inviato nella Torino, nell’82° Fanteria, che operava a poca distanza dalla Lecce. Il mese di dicembre, passato tra Candelù e Maserada, fu di tregua non dichiarata, utile ad entrambi gli eserciti per riorganizzarsi; tra il giorno di Natale e l’inizio di febbraio Brigo e i compagni furono ritirati a Treviso per poi ritornare, tra febbraio e maggio, a presidio della zona del Sile, tra Ca’ del Negro e Salsi.

Nel primo giorno della battaglia del Solstizio (15 giugno 1918) l’82° era in prima linea e la sera gli imperiali oltrepassarono il fiume creando una testa di ponte a Capo Sile; le cose sembravano mettersi male, ma il terzo battaglione riuscì a ricacciarli; gli asburgici attaccarono nuovamente all’alba del 18, sempre nella parte presidiata dal terzo battaglione, trovando nuovamente un baluardo insormontabile. Dopo due giorni di tregua fu la volta della Torino ad andare all’attacco: lungo tutto il settore da essa controllato, la Brigata cercò di passare il Piave realizzando azioni dimostrative nel settore di Jesolo; il 22 giugno l’82° sfondava a Ca’ Massocco e riusciva a catturare 270 uomini e molto materiale bellico. L’ultima fase di scontri prima del riposo vide la Torino attaccare la Piave Vecchia, dove il campo di battaglia era paludoso e ricco di vegetazione, favorendo gli imperiali nell’allestimento di una buona linea di difesa. Nonostante tutto, la fanteria italiana riuscì, dopo due giorni di scontri, ad impossessarsi di importanti posizioni, a catturare 300 prigionieri e altro materiale bellico. La prima fase della battaglia del Solstizio si concluse con un successo ma in quei giorni la Brigata, con l’81° che stava combattendo a Meolo, perse più di 800 uomini.
Dopo essersi riorganizzata, a inizio di luglio la Torino passò alla nuova controffensiva per ricacciare le ultime sacche nemiche al di là del fiume. Il Reggimento di Brigo, nonostante il campo insidioso e inondato, grazie all’ardimento di alcune pattuglie riuscì a raggiungere Bova Favaretto. La forza della Brigata italiana era implacabile e gli austroungarici, ormai battuti, passarono il Piave sulla sponda sinistra. I soldati dalla mostrina color giallo-blu presero così posizione a difesa del tratto tra Ca’ Bressanin e il mare, ottenendo il supporto della Regia Marina. Dopo aver respinto con tenacia gli austroungarici e averli ricacciati al di là del fiume, la Brigata fu mandata in riposo a Cavallino. Le gesta della battaglia del Solstizio furono premiate con la Medaglia d’Argento al Valor Militare.

Il periodo di riposo durò qualche settimana e il 13 agosto la truppa fu spostata prima a Ca’ Vianello e, pochi giorni dopo, a Badoere. La Torino era però destinata a cambiare il versante del fronte: dal Piave si passava alla Val Giudicarie. Il 1 ottobre la Brigata si collocava così sulla linea tra Monte Melino e Levanech, in attesa di passare all’attacco in quella che sarebbe divenuta la battaglia finale. Mentre sul Piave e sul Grappa le fanterie combattevano già da giorni, il 3 novembre la valle risultava ormai sgombra da qualsiasi forza nemica, ormai in rotta. Quel giorno, partendo da Comlino, la Torino conquistava senza sparare un colpo gli abitati di Lardaro, Biondo e Trone. Infine, il 4 novembre, giorno dell’armistizio, assieme agli arditi, i fanti dell’82° entravano a Mezzolombardo, mentre il Reggimento gemello proseguiva per Bolzano.
La guerra era finalmente finita, ma la vita di Cesare sarebbe proseguita per poco tempo: rimasto alle armi per terminare il periodo di ferma, fu trasportato all’ospedale militare di Roma; il 24 maggio 1920 fu riformato e mandato a Sambruson. Non guarì e morì a 22 anni il 20 luglio 1920 nella casa in via Alture.

Annalisa e Bruna Brigo ritirano il Gagliardetto della Memoria in onore dei soldati Andrea e Cesare Brigo

Fonti:

  • Diari delle Brigate Siena, Torino, Lecce, Friuli
  • Heinz von Lichem: La guerra in montagna 1915 – 1918. Il fronte dolomitico
  • Fogli matricolari di Andrea e Cesare Brigo, conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia

Ivan B. Zabeo

Gagliardetti della Memoria: Redento Berno

Redento Berno, matricola 19749, era nato a Dolo il 20 luglio 1886. Figlio di Pietro, muratore trentenne, e di Teresa Mingardo, fu catturato durante la ritirata del Piave. Prima della guerra lavorava seguendo le orme del padre; poi, nel marzo 1916, fu chiamato a combattere.

Da quanto si apprende dal foglio matricolare, Berno non effettuò il servizio di leva con gli altri nati del 1886 perché riformato ma fu chiamato alle armi come imposto dalla mobilitazione del 23 maggio 1915. L’11 marzo 1916 fu rivisitato dai medici del distretto militare di Venezia e il 29 aprile fu mobilitato. Si presentò nel 56° Fanteria, Brigata Marche, ma la permanenza nell’unità fu breve: il 31 luglio aveva già cambiato unità e, con il ruolo di mitragliere Fiat giunse sul monte Sabotino, settore controllato a partire dal 20 maggio dal 77°, Brigata Toscana.

Fino all’aprile 1917 Berno visse alcuni dei momenti più importanti del conflitto, legati soprattutto alla conquista del monte, reso un’autentica fortezza da parte dei difensori: a partire dal maggio 1915, i difensori galiziani avevano creato un sistema apparentemente imprendibile formato da gallerie, tunnel e casematte di cemento armato per le mitragliatrici in cima alla montagna. Il sistema sfruttava al meglio il lato a strapiombo tra le quote 609 e il dente di quota 572, posizionandovi i comandi e altri vari servizi; erano stati costruiti vari nidi di mitragliatrice e di mortaio, raggiungibili facilmente grazie ai camminamenti e alle scalinate, mentre una galleria facilitava lo spostamento dei soldati dalla retrovia alla prima linea e tutte le entrate erano protette da reticolati. Il Sabotino era servito dall’elettricità e dall’acqua corrente e una teleferica lo collegava con il fondovalle. Solitamente gli italiani assaltavano sempre da nord-ovest, sul lato più favorevole, che si poteva sfruttare grazie alle gobbe sulla cresta e gli avvallamenti sul fianco. Fritz Weber, però, sottolineava che l’impianto difensivo del monte reggeva solo se gestito da una guarnigione che lo conosceva molto bene. Pochi giorni prima della VI battaglia dell’Isonzo arrivò il 37° Reggimento di fucilieri dalmati, poco esperti sulla gestione del sistema difensivo. Ecco che il forte naturale, incredibilmente corazzato, diventava allo stesso tempo vulnerabile.

Nello schema della battaglia il 77° doveva agire ai piedi del monte assieme a due battaglioni della Brigata Trapani. L’attacco scattò la mattina del 6 agosto, anticipato dal consueto bombardamento dell’artiglieria, iniziato alle ore 7. Alcune pattuglie furono mandate in avanscoperta per controllare lo stato di efficienza dei reticolati; constatato che erano distrutti, alle ore 16 il grido «Savoia!» spezzava il silenzio e dava inizio alla battaglia. La Toscana conquistò il Sabotino e alcune truppe si spinsero sull’Eremo di San Valentino e San Mauro, salvo poi essere ricacciati dall’abitato dal 23° Reggimento dalmata.

Gli austroungarici, colpiti dalla perdita del monte e della città di Gorizia, il 7 agosto contrattaccarono impegnando gli italiani in un disperato corpo a corpo ma invano, perdendo moltissimi uomini tra morti e feriti e almeno 700 prigionieri; la situazione degli imperiali si aggravò quando furono presi alle spalle dalla Abruzzi, che il giorno prima si era asserragliata a Oslavia. Il monte Sabotino era definitivamente conquistato: al secondo ultimatum di resa, i difensori dell’avamposto risposero con il lancio di granate e spari di fucile. Gli italiani diedero alle fiamme le caverne. La battaglia del Sabotino costò la vita a 6310 italiani, i feriti furono 32784 e i dispersi 12127. La Toscana perse 1400 uomini e nella notte a cavallo del 14 agosto fu ritirata per riordinarsi a Ca’ delle Vallade, a Cormons. Fu insignita della Medaglia d’Argento al Valor Militare.

Fino a metà settembre gli uomini restarono in riposo; dopo un altro breve periodo sul Sabotino, furono spostati nella zona di Nad Logem. Si era alla vigilia della VII battaglia dell’Isonzo e la Toscana entrò in scena tra il 9 e il 12 ottobre per un assalto al Veliki Hribach, nella zona di Loquizza, e del monte Pecinka. Tutte le posizioni situate nella parte occidentale del Veliki furono conquistate e il giorno di Ognissanti la cima del monte fu definitivamente presa. L’obiettivo diventava quindi il monte Fajti; gli austroungarici cercarono di distogliere l’attenzione degli italiani dalla sua conquista, impegnandoli nuovamente sul monte perduto il giorno precedente. La Brigata di Berno, vistasi minacciata alle spalle, accerchiò gli imperiali in una sacca e dopo quest’operazione, assieme al resto della truppa, puntò e fece suo il Fajti, catturando 1500 prigionieri tra cui il comandante della 55° Brigata austroungarica. Il colpo inferto fu pesante: il 3 novembre il comando austroungarico diede l’ordine di bombardare il monte e di contrattaccare. La Toscana, che nell’azione dell’artiglieria aveva subito gravi perdite, non indietreggiò e, dopo quattro giorni di scontri, costati quasi 1600 uomini, fu ritirata a Palmanova.

Passato l’inverno 1916 – 1917 Berno esaurì la sua esperienza nella Toscana e fu assegnato alla 258^ compagnia di mitraglieri Fiat alla dipendenza del 37° Fanteria, Brigata Ravenna, che, dopo 5 mesi ininterrotti di prima linea, dal febbraio si trovava nel settore di Vertojba – Merna. Emerge un dubbio quando si parla di questo frangente nella vita di Berno: il 9 aprile 1917 si sposò con Luigia Pauletto, ma non sappiamo se era in licenza a Dolo oppure se è avvenuto per procura.

Un mese dopo l’arrivo al reparto, Berno era di nuovo catapultato in combattimento. L’obiettivo della X battaglia dell’Isonzo era la conquista dell’inferno di Vertojba, posizione ritenuta inespugnabile. Dopo 60 ore di bombardamenti, tra il 14 e il 16 maggio la fanteria italiana uscì dalle trincee e cercò inutilmente di far proprie le posizioni di quel settore del fronte, perdendo 350 uomini.

Dopo le sconfitte, la Ravenna fu posizionata a Kambresko. Era pronta l’offensiva della Bainsizza e doveva impossessarsi della strada che da Chiapovano portava al monte Rokel. Il 24 agosto scattava l’offensiva e dopo violenti scontri alcuni battaglioni si attestarono su quota 895, a Ravne na Koroskem. Altrettanta fortuna non ebbe il 38°; l’avanzata, quindi, era posta tutta sulle spalle del 37°, che il 26 conquistò le alture antistanti al Volnik, a est di Berg, caduta a sua volta il 28, salvo poi abbandonarlo a causa del violento fuoco del nemico. In poche giornate furono messi fuori combattimento 1345 uomini. Il 31 agosto la Ravenna andò a riposo prima a Podresca di Prepotto e poi a Canale.

Iniziata l’offensiva austro-tedesca il 24 ottobre nella zona di Tolmino, la Brigata si trovò schierata sulla linea Koprivsce – quota 814 – quota 725. I primi assalti nemici furono respinti ma ormai il fronte di Caporetto era stato sfondato: come tutte le Brigate lungo il fronte carsico anche la Ravenna cominciò la ritirata protetta dalla retroguardia. Il 26 ottobre iniziava il percorso per raggiungere il Piave: passato l’Isonzo a Plava, raggiunse San Vito al Torre il 27; il 30, invece, era a Santa Maria di Sclaunicco. Una volta raccolti i superstiti del 38° Fanteria, sopraffatto a Lestizza, riprese la marcia e passò il Tagliamento sui ponti di Madrisio. Infine, si mise in salvo il 5 novembre dopo aver passato il Piave.

Purtroppo, però, tra i superstiti della ritirata non compariva il nome di Redento Berno: infatti fu catturato il 2 novembre. L’ultima notizia che abbiamo di lui riguarda la data e il luogo del decesso: portato nel campo di prigionia di Villach, spirò il 3 ottobre 1918 a causa di una malattia. Il suo corpo riposa nel cimitero militare del campo.

Fonti:

Diario della Brigata Toscana e della Ravenna

Per la battaglia del monte Sabotino: CARLO MEREGALLI (prefazione di Giulio Guderzo) – Grande Guerra. Tappe della Vittoria – Ghedina  e Tassotti editore, 1996, II edizione

Sito Ministero della Difesa, Onoranze per i Caduti in Guerra

Archivio Comunale di Dolo

Gianfranco Berno ritira il Gagliardetto della Memoria in onore di Redento Berno

Ivan B. Zabeo

Gagliardetti della Memoria: Smaggiato Lino

Smaggiato Lino (1923-1945) in una delleultime istantanee
Smaggiato Lino (1923-1945) in una delle ultime istantanee

Lino Smaggiato di Romeo, veterano della Grande Guerra, era nato il 25 agosto 1923 a Vigonovo. Primogenito di una figliolata di 9 bambini, veniva definito dalla madre – forse in virtù del fatto di essere proprio il primogenito – il più bello, il più alto (era alto circa 1,90) ed un ragazzo d’oro.

Prima della guerra, Lino lavorava come mezzadro per la Contessa De Lazzara, la cui villa era a Barbariga presso San Pietro di Stra. La fame a quei tempi era molta e la Contessa, oltre che con il denaro, dava a Lino anche un cesta contenente frutta e verdura perché la portasse alla famiglia…ma spesso arrivava quasi vuota!

Non sappiamo con quale reparto Lino prese parte alla Seconda Guerra Mondiale; le poche lettere da lui spedite sono a tutt’oggi ancora da trovare.

Smaggiato Lino in marcia con il suo reparto. E' visibile a sinistra, indicato dalla freccia.
Smaggiato Lino in marcia con il suo reparto. E’ visibile a sinistra, indicato dalla freccia.

Di lui le notizie si perdono fino al 1945 quando cadde prigioniero dei tedeschi venendo condotto in un non meglio identificato campo di concentramento in Germania ove morì di fame e di stenti, assistito da un prete, il 21 febbraio 1945.
Quando la notizia della morte giunse in Municipio, si attese che il fratello Pietro, di cinque anni più giovane, partisse per il militare; solo allora la morte di Lino venne comunicata alla famiglia.
Nel frattempo, nella famiglia, a lutto non ancora reso noto si era sommato il lutto per la perdita di Antonietta, sorellina di Lino, che morì all’età di sette anni a causa di una scheggia di una bomba d’aereo caduta in prossimità dell’argine di Galta.

Smaggiato oggi riposa nel Cimitero militare italiano d’onore di Amburgo, nel riquadro tombale n. 3, fila L, tomba n. 20. Per anni, dopo la sua morte, l’A.N.C.R. andava a far visita alla famiglia, portando qualche omaggio, ma mai seppe dire dove Lino era sepolto. Solo un cippo nel parco della rimembranza di Vigonovo ne ricorda la figura.

Flornda Marina Veller ritira il Gagliardetto della Memoria in memoria di Smaggiato Lino
Florinda Marina Veller ritira il Gagliardetto della Memoria in memoria di Smaggiato Lino

 

Fonti:

  • Documentazione fotografica e memorie orali famiglia Smaggiato

Alberto Donadel

Gagliardetti della Memoria: Ferruccio Boschetti

Ritornando a parlare dei soldati che abbiamo ricordato durante la cerimonia di consegna dei Gagliardetti della Memoria, parliamo ora della storia di Ferruccio Boschetti. Prima di farlo, pubblichiamo il ricordo che Fernanda Giantin, nipote del Tenente, ci ha rilasciato.

LA MEMORIA VA COLTIVATA COME IL CONTADINO COLTIVA LA TERRA

Ferruccio era il fratello più giovane della mia nonna paterna Lavinia, figura fondamentale per la mia educazione fin dall’infanzia. La memoria per lei era un culto perché dà identità e appartenenza. Come fa un paese, una famiglia a dimenticare la sua storia, a non sapere chi siamo e di quali esempi ci nutriamo? La memoria va coltivata con amore come il contadino coltiva la terra, la rivolta, la concima; darà i frutti alle nuove generazioni. Alla mia nascita Ferruccio non c’era più da vent’anni. C’era la sua immagine e nel tempo il ricordo continuo di lui, delle sue virtù civili e militari, è entrato nella mia mente e nel mio cuore. Sapeva esprimere con facilità il suo affetto verso la famiglia. Lavinia mi leggeva i pensieri con cui accompagnava le foto che inviava dal fronte; manifestavano grande sensibilità, serenità e senso del dovere. Ma per il Centenario della Grande Guerra, il suo non sarà solo un nome sconosciuto scolpito sulla lapide dei Caduti di Arino ma una storia viva raccontata con passione ed impegno dai ragazzi dell’Associazione Riviera al Fronte. Si compie quanto la madre Augusta e la sorella Lavinia avevano promesso a Ferruccio sul memoriale del trigesimo: “Resterai tu obliato nel dì che verranno? Non pensarlo!”. Ma mai avrebbero immaginato che dopo un secolo la sua vita e il suo sacrificio fossero raccontati alla gente della Riviera del Brenta, a chi frequenta Internet e che in suo onore fosse consegnato alla nipote il Gagliardetto della Memoria. Le nonne e la nipote ringraziano.

Fernanda Giantin

Vigonovo, 7 agosto 2015

Ringraziamo quindi Fernanda che, grazie alla sua passione per la Storia e l’amore nei confronti dei suoi parenti che andarono al fronte, ha conservato del materiale importante, composto di foto e manoscritti, prestatoci per raccontare la vita del tenente Ferruccio Boschetti, matricola 1308 e poi 20982, figlio di Giovanni Battista e di Augusta Fabris, Medaglia d’Argento al Valor Militare durante la Grande Guerra e reduce della campagna di Libia, disperso durante la battaglia di Monastir del 1916.

Ferruccio Boschetti in abiti civili. Appena sopra al braccio sinistro si puà intravedere una piccola medaglietta d’argento. Fu conquistata nell’anno 1900 a Siena, in occasione di una gara di scherma organizzata dall’Esercito

Il registro di leva contenuto nell’Archivio Comunale di Dolo indica che Boschetti era nato ad Arzergrande, Padova, il 29 aprile 1878. La famiglia era originaria della Liguria e una volta adulto Ferruccio tornò a Molassana, Genova, dove trovò lavoro come impiegato e creò una famiglia, allevando due figli; la madre Augusta e la sorella Lavinia restarono invece nel Veneziano, la prima ad insegnare alla scuola elementare di Arino, la seconda a Vigonovo. Boschetti aveva combattuto in Libia nel 1911-12, ottenendo i primi gradi e venendo promosso fino ad essere sottotenente.

Con l’inizio della guerra contro l’Austria-Ungheria Boschetti fu richiamato e assegnato a vari battaglioni della Milizia Territoriale per via dell’età. Non partì da solo: con lui c’era l’inseparabile macchina fotografica, utilizzata nei momenti di tregua. Le foto originali, datate e segnate con il luogo dove furono scattate, sono arrivate ai giorni nostri e Fernanda ci ha permesso di pubblicarne qualcuna.

Ferruccio Boschetti sul monte Novegno, inverno 1916

Boschetti passò la prima parte del conflitto sull’altopiano di Folgaria, sul Sommo Alto, per lavorare alla fortificazione e al presidio dell’area. All’inizio del 1916, invece, giunse in Trentino anche la Brigata Cagliari, alla quale il battaglione di Boschetti fu aggregato fino alla campagna di Macedonia. La Cagliari fu chiamata a presidiare il settore di Tonezza a febbraio, tra i monti Maronia, Coston e Soglio d’Aspio, e fino all’inizio della Strafexpedition il fronte fu posto in sicurezza senza grossi problemi. Il più grande nemico in quell’inverno infernale erano il gelo e le valanghe: una foto scattata nel marzo 1916 (a fianco) mostra gli effetti della grande nevicata che aveva investito il monte Novegno. Incredibilmente, le baracche di entrambi gli schieramenti furono adombrati da mura di neve alte fino a 5 metri.

Il 15 maggio gli austroungarici balzarono all’assalto alla prima linea italiana sull’Altopiano di Asiago. In seguito al bombardamento dell’artiglieria, la fanteria imperiale dilagò in Costa d’Agra, aggirando le forze italiane. Il terzo battaglione del 64°, a difesa del Tre Sassi, fu accerchiato e catturato, non senza lottare, mentre il primo battaglione riuscì ad evitare la stessa sorte sul Soglio d’Aspio, riuscendo a raggiungere con i superstiti Coston d’Arsiero. Questo luogo diventava la linea di non ritorno e consapevoli di questo la Cagliari impose le proprie armi su quelle nemiche, rallentando così la corsa austroungarica alla pianura.

Ferruccio Boschetti in divisa

Mentre la Cagliari veniva riorganizzata in seconda linea a Chiuppano, gli asburgici avanzarono mettendo sotto assedio il Novegno, in particolare i monti Spin e Brazome. Fu proprio su quelle posizioni che la Brigata di Boschetti fu schierata per la difesa dell’estremo baluardo d’Italia. Se nei giorni precedenti l’azione offensiva aveva disgregato la retroguardia e provocato gravi danni, nella seconda parte della Strafexpedition i difensori italiani riuscirono a resistere con audacia. La battaglia del Novegno proseguì fino alla metà di giugno, fino a quando l’Alto Comando austroungarico ordinò la fine delle operazioni e il ripiegamento su delle posizioni più difendibili. Tra le giornate più dure da ricordare c’è quella del 12 giugno, quando all’alba l’artiglieria imperiale iniziò a tirare contro gli italiani sui monti Giove, Novegno e Passo Campedello. Dopo alcune ore di fuoco martellante, il 3° e il 4° Kaiserjaeger balzarono fuori dalle trincee per impossessarsi di quelle avversarie. In due giorni, asburgici e italiani lottarono in furiosi corpo a corpo che aveva come risultato la vittoria di quest’ultimi. Il 14 giugno gli aggressori diedero sfogo alle ultime forze, l’ultimo tentativo per sfondare e conquistare così Schio e la Pianura Padana. La fanteria italiana, rimasta senza rinforzi e allo stremo delle forze, riuscì a resistere ancora una volta per altri due giorni. Boschetti osservava lo svolgimento della lotta dall’osservatorio del Rivon, da dove le batterie colpivano le truppe imperiali allo scoperto. L’Italia aveva vinto e la Cagliari era stata lanciata all’inseguimento dei fuggiaschi. Prima di abbandonare l’Altopiano dei Sette Comuni, le truppe occupavano Pria Forà, monte Brazome, monte Aralta e Roccolo dei Sogli, controllando le cime fino al 26 luglio, quando i fanti furono ritirata per rifiatare a Schio, in attesa di partire per la Macedonia.

bomba inesplosa
Ferruccio Boschetti e una bomba inesplosa austriaca sul Monte Novegno, giugno 1916

Il Novegno era stato completamente devastato e bucherellato dall’artiglieria asburgica. Gli ordigni inesplosi restavano là, in attesa di essere disinnescati e spostati. La foto a fianco mostra il sottotenente Boschetti su uno dei proiettili in questione.

Negli stessi giorni inviava a casa altre fotografie, una che ritraeva i suoi coraggiosi commilitoni. Dietro ad una di queste aveva scritto:

Ferruccio Boschetti, a destra, con i suoi commilitoni. Giugno 1916

«Ragazzi generosi, umili, figli di contadini, coraggiosi e forti che hanno sopportato la fatica, il freddo, la fame, il sonno e le sofferenze di ogni genere».

Dopo le fatiche della battaglia di Asiago, la Cagliari era destinata al fronte macedone. Prima di partire, però, a Ferruccio era stato concessa una settimana di licenza per rivedere i propri cari. Il periodo però non era abbastanza: dopo esser stato per cinque giorni in quarantena al distretto sanitario, in pochissimi giorni riuscì a salutare, per l’ultima volta, l’adorata moglie e i figli a Molassana e la madre e la sorella in Riviera del Brenta.

L’8 agosto iniziarono le attività di imbarco a Taranto per il fronte balcanico. Il trasporto della Trentacinquesima divisione e del resto del corpo di spedizione italiano nei Balcani durò quasi una settimana, con l’Adriatico infestato dagli U-Boot. Boschetti e il suo contingente arrivò salvo sull’altra sponda e in una lettera descrisse Salonicco, la città portuale dove sbarcò:

«E’ una città meticcia. Convivono Cristiani, Mussulmani ed Ebrei divisi in distretti come villaggi all’interno di una città e riconoscibili solo dal differente colore dei turbanti: bianchi per i seguaci dell’Islam, gialli per gli ebrei e blu per i cristiani. È convivenza che dura da cinquecento anni! Il panorama si presenta con alti minareti, cipressi, cupole e le eleganti residenze ottomane.

Sopravvivono i resti dell’Arco trionfale del tetrarca Galerio (fine del III – inizio del IV secolo) – 1915 l’archimandrita di Salonicco, massima autorità religiosa cittadina della Chiesa greco-ortodossa, è ospitato a bordo di una nave da guerra britannica per protezione.

Belli i nostri giovani soldati e ben vestiti; sono stati molto festeggiati ed ammirati quando sfilarono per le vie di Salonicco».

Le truppe della Cagliari dovevano combattere su un terreno molto difficile, non molto diverso da quello dell’altopiano di Asiago, anche se molto più secco e paludoso. Inoltre, si manifestavano le malattie che avevano colpito le truppe italiane in Albania, con diverse vittime: molti si ammalarono e allora il comando corse ai ripari consegnando ai soldati il chinino.

Il 27 agosto la truppa occupava il settore Akeeklise – Sarigol e ai primi di settembre controllava il settore di Krusa Balcan, fra il lago Dorjan e il forte di Dova Tepi, dove era chiamata a realizzare lavori difensivi. Il 19 ottobre i combattimenti entrarono nel vivo quando le truppe alleate decisero di sfondare a Monastir, con il comando delle operazioni guidato dai francesi. Passata la prima parte dell’autunno, la guerra sul fronte balcanico iniziava a prendere una strada ben definita: le truppe italiane sostituirono la Diciassettesima divisione francese sull’altopiano di Monastir, a 2000 metri di altezza, dove la neve era già abbastanza alta e si viveva in condizioni disperate, a dieci gradi sotto zero. Il 15 novembre iniziava il movimento e la Cagliari occupava il dente di Velusina e il colle di Ostrec. La battaglia entrava nel vivo il 17 novembre, quando l’artiglieria tedesca e bulgara martellarono la prima linea alleata. Era un tentativo estremo, ma inutile, di bloccare l’offensiva dell’Intesa, compiuta il 19 novembre con la conquista di Monastir. La Cagliari fu insignita della Medaglia d’Argento al Valor Militare e della Croce Francese con Palma.

Tra i primi caduti di quell’offensiva c’era anche il sottotenente Boschetti, colpito in pieno da una bomba. Il suo attaccamento ai suoi sottoposti e il coraggio fu sottolineato nella motivazione per cui gli fu concessa la Medaglia d’Argento al Valor Militare:

«Costante esempio di valore, durante un forte bombardamento nemico mantenne alto il morale dei propri dipendenti e mostrando animo invitto e sprezzante del pericolo, sulla prima linea sdegnava qualsiasi riparo, finché cadde sul posto colpito al petto da una scheggia di granata». (monte Velusina – Macedonia – 17 novembre 1916).

A distanza di poco più di una settimana, a Morassana e ad Arino giunse la notizia della scomparsa del povero Ferruccio. Il tenente colonnello comandante la 35° Divisione, M.L. Cravosio, scrisse alla moglie una lettera toccante, datata 27 novembre 1916:

«Con sommo dolore, comunico alla S.V. che suo marito sottotenente Boschetti Ferruccio, il 17 corr. cadeva gloriosamente colpito da granata nemica.

Conoscendo le preclari virtù dell’eroico Sottotenente, è stato promosso ufficiale per merito di guerra.

Assicuro la S.V. che farò tutto il possibile perché l’eroismo di suo marito non venga dimenticato affinché una meritata ricompensa possa lenire il dolore di tutta la famiglia.

Nel compiere il doloroso dovere, le porgo le mie condoglianze e quelle degli ufficiali tutti del reggimento e le assicuro che ciò che apparteneva al compianto suo marito le sarà rimesso a cura del deposito di questo reggimento.

Il Ten. Colonnello

Comandante Int. del Reggimento

M.L. Cravosio»

Dopo la scomparsa di Ferruccio, la madre e la sorella vissero con il dolore di non poter più vedere il loro amato congiunto e di non poter piangere sulla sua tomba; ma restava incancellabile e tramandato di generazione in generazione il ricordo e l’orgoglio di aver dato un figlio al servizio alla Patria, distintosi per l’onore e il coraggio. A pochi giorni di distanza dalla triste comunicazione, la madre Augusta e la sorella Lavinia avevano dedicato un memoriale.

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Il nome del tenente Boschetti è stato ricordato in testa al monumento dei caduti di Arino. Al momento della scomparsa aveva 38 anni.

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Fernanda Giantin ritira il Gagliardetto della Memoria in memoria di Ferruccio Boschetti

Fonti:

  • Ricordi famigliari appartenenti alla famiglia Giantin;
  • Diario della Brigata Cagliari
  • Per la Medaglia al Valore: Istituto del Nastro Azzurro

Ivan B. Zabeo

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