Quando si parla della guerra italiana, il fronte dell’Africa Orientale viene spesso messo in secondo piano. Ci si limita a dire che nel 1941 l’Italia perdeva l’Abissina. Quella dell’Impero è stata un’esperienza molto breve: fondato nel 1936 dopo la campagna d’Etiopia, quando scoppia la guerra contro il Regno Unito il 10 giugno 1940 è evidente che l’intero esercito schierato nel Corno d’Africa e senza collegamenti con la madrepatria non avrebbe mai potuto resistere a un’offensiva britannica.
Eppure, come abbiamo visto nel corso della nostra cronaca giorno per giorno, è proprio lungo i confini dell’Abissinia che l’Italia mostra la sua intraprendenza militare. Se in Libia si vive l’incertezza, ad Addis Abeba il comando italiano passava all’attacco e invade la Somalia britannica e opera al confine con il Sudan.
Tra i rivieraschi a difendere il Tricolore sabaudo in Abissinia c’è anche il carrista Eliseo Longhin, classe 1917, originario di Campagna Lupia. Chiamato nel 1937 per il servizio militare, poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale viene trattenuto alle armi e parte per l’Africa Orientale: si imbarca a Brindisi e nell’aprile del 1940 sbarca a Massaua, in Eritrea.
Scoppia la guerra contro il Regno Unito e a differenza di quanto succede nel Mediterraneo, l’esercito italiano sull’Oceano Indiano combatte sapendo di essere in una condizione complicata, senza collegamenti e rifornimenti con l’Italia, circondata da forze ostili. Eppure in luglio viene occupata la Somalia britannica. Il 17 agosto Eliseo Longhin è uno dei protagonisti della battaglia di La Faruk. Vi partecipa a bordo del suo carro armato. Lo sviluppo della sua personale battaglia viene spiegato grazie alla motivazione della concessione della Croce al Merito di Guerra:
“Pilota di carro M in un violento combattimento del reparto su un terreno impervio, si lanciava col proprio carro tentando di raggiungere un centro di armi automatiche, che arrestava l’azione delle Fanterie. Ferito in numerose parti del viso, persisteva nel coraggioso tentativo finché il sangue delle ferite non gli toglieva ogni possibilità visiva. Chiaro esempio di abnegazione e di non comune sprezzo del pericolo.”
Anni dopo essere tornato a casa dai propri cari, Eliseo racconta quell’esperienza: il tank davanti al suo esplode; una scheggia colpisce il suo carro e viene ferito alla testa. Il sangue gli cola sugli occhi ma non smette di combattere, continuando a guidare e portando a termine la missione. Per Eliseo non era stato nulla di straordinario ma un atto dettato dal senso del dovere che sempre lo aveva contraddistinto.
L’esperienza dell’Africa Orientale Italiana termina verso la fine del maggio 1941. Longhin viene catturato dagli inglesi e viene spostato da un campo all’altro, nei deserti del Kenya e del Sudafrica. Una lunga assenza da casa terminata il 31 maggio 1947. La famiglia lo aveva dato per disperso perché non aveva più sue notizie. Ma è festa grande quando torna in paese: le campane della chiesa di Campagna Lupia suonano a dare il felice annuncio e il padre, reduce della Grande Guerra, offre da bere a tutto il paese. Eliseo era tornato in un mondo completamente diverso rispetto a quello lasciato dieci anni prima: l’Italia aveva perduto il conflitto, Mussolini era caduto, il Re scappato dopo l’8 settembre 1943 e le italiane e gli italiani avevano potuto votare per la prima volta scegliendo di diventare una Repubblica. Il paese era distrutto e andava ricostruito.
Eliseo vuole voltare pagina. Era sempre stato una persona riservata e schiva ma come lui molti altri reduci decisero di non tornare più sui drammi e sulle privazioni vissute. Una regola che vale soprattutto in una famiglia in cui i suoi fratelli avevano combattuto in Albania, mentre chi era rimasto a casa aveva sofferto ansia e incertezza, fame, oltre alla brutale occupazione militare e il pericolo di essere falciato dal “Pippo” inglese.
Pure la moglie non vuol sentirne parlare: secondo lei la guerra e la prigionia avevano portato via ad Eliseo gli anni migliori e, una volta tornato a casa, per di più a due anni di distanza dalla fine, per lui non c’era molto: per entrare nelle fabbriche migliori servivano istruzione, formazione e soprattutto raccomandazioni che lui non aveva.
Ma quando Eliseo diventa prima padre e poi nonno inizia ad aprirsi. Probabilmente sente il dovere di raccontare come monito alle nuove generazioni. A loro riserva aneddoti che facevano sognare un continente lontano: gli struzzi che mangiavano qualsiasi cosa venisse poggiata sui davanzali delle finestre incluse radio e lamette, gli scorpioni che si suicidavano pungendosi da soli quando venivano messi in un cerchio di fuoco, le urla delle iene. Una volta finito l’incanto, andava sulla sua storia personale rimarcando sempre quanto fosse stato fortunato a finire in un campo di prigionia inglese, dove i prigionieri erano trattati bene; i britannici avevano perfino organizzato una scuola che aveva frequentato e di cui era molto orgoglioso. Parlava anche delle infezioni, della malaria, di quando un attacco di dissenteria durante un trasferimento gli aveva fatto perdere il convoglio e la preziosa valigia con dentro tutti i suoi averi più cari, come la giacca in pelle da carrista, le camicie in seta fatte con la stoffa dei paracadute.
Nelle sue parole non c’era amarezza o rabbia, forse perché quando aveva iniziato a raccontare la guerra era lontana e lui era sereno.
È stato iscritto all’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci da quando è tornato e ha partecipato a tutte le celebrazioni del 4 Novembre all’altare dei caduti del paese portando con sé anche i riluttanti nipoti per far capire l’importanza di quello che era stato e delle vite che erano andate perdute.
Lo scorso 24 novembre, in occasione della sesta edizione dei Gagliardetti della Memoria di Riviera al Fronte, viene consegnato nelle mani della figlia Franca e delle nipoti Anna e Francesca il gagliardetto in onore di Eliseo e per ringraziare la famiglia per averne perpetuato il ricordo.